RASSEGNA STAMPA

DIARIO - Un giorno di ordinaria follia

N.12 - 11 luglio 2008

UN GIORNO DI ORDINARIA FOLLIA
Via Tolemaide e la carica di quel venerdì 20 luglio nelle motivazioni di una sentenza sul G8
di Mario Portanova

Il processo si è concluso il 14 dicembre scorso. Era a carico di 25 manifestanti accusati di devastazione e saccheggio. Ma dalle pagine depositate dal giudice Emilio Gatti, viene fuori altro. Quella dei partecipanti al corteo fu «una reazione legittima nei confronti di atti arbitrari dei pubblici ufficiali». Aggrediti violentemente, risposero altrettanto.

Sette anni dopo il G8 di Genova, leggi salva-Berlusconi permettendo, e arrivato il momento della verità. Entro il 21 luglio conosceremo la sentenza di primo grado del processo sugli abusi commessi nella caserma di Bolzaneto, dove secondo i pubblici ministeri Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati si sono verificati casi molto prossimi alla tortura. E il 10 si è conclusa la requisitoria sull'irruzione alla scuola Diaz, che i magistrati inquirenti Enrico Zucca e Francesco Cardona Albini hanno definito «un massacro»: entro I'autunno si chiuderà anche questo processo, che vede tra gli imputati diversi pezzi grossi della polizia come Franco Gratteri, Gilberto Caldarozzi, Giovanni Luperi e Vincenzo Canterini.
A essere precisi, una sentenza giudiziaria contro Ie forze dell'ordine c'è già, ed è durissima. È ancora più dura perché è scaturita da un processo - concluso il 14 dicembre 2007 con sostanziose condanne - dove gli imputati erano manifestanti, e non poliziotti: quello ai 25 accusati di devastazione e saccheggio. Il 14 marzo 2008 sono state depositate le motivazioni della sentenza, scritte dal giudice a latere Emilio Gatti, ma nessuno o quasi si è preso la briga di andarsele a leggere. Peccato, perché in quelle pagine ce n'era abbastanza per montare una polemica di fuoco, un caso nazionale.
II punto chiave è la ricostruzione della carica contro il corteo dei Disobbedienti, lanciata da un contingente di carabinieri in via Tolemaide nel primo pomeriggio di venercli 20 luglio. È un momento cruciale di quel tragico G8: lì comincia la guerriglia urbana che culmina nell'uccisione di Carlo Giuliani in piazza Alimonda. Ebbene, il giudice Gatti scrive nero su bianco che quella carica fu illegittima mentre invece fu legittima la reazione di una parte del corteo. Insomma: i Disobbedienti guidati da Luca Casarini stavano dalla parte della legge, i carabinieri, guidati dal dirigente di polizia Mario Mondelli e dal capitano dell'Arma Antonio Bruno, no.
L'ordine di attaccare il corteo, scrive il giudice, «non solo era illegittimo, ma palesemente ingiustificato e sproporzionato alla situazione». La carica è stata «un’aggressione di pubblici ufficiali ai danni di una collettività organizzata». Non furono le tanto temute Tute bianche, che pure avevano tanto fatto parlare i giornali con le loro «dichiarazioni di guerra» ai potenti delIa Terra, a turbare l'ordine pubblico, ma i carabinieri.
La conclusione è pesante come il piombo: fino a un certo momento di quel pomeriggio, i manifestanti che contrastarono il violento attacco degli uomini di Mondelli furono protagonisti di «una reazione legittima nei confronti di atti arbitrari dei pubblici ufficiali. [...] Aggrediti in maniera estremamente violenta, i partecipanti al corteo reagirono in maniera violenta [...] L’arbitrarietà delle condotte dei pubblici ufficiali costituisce causa di giustificazione delle condotte di resistenza ascrivibili ai privati.» Una resistenza leggittima e giustificata, dunque, perché l'azione dei carabinieri «non ha leso soltanto bene di carattere primario quali l’incolumità e la libertà personale, ma anche i diritti di quei cittadini a riunirsi e a manifestare liberamente il proprio pensiero».
Il giudice sposa la tesi di un imputato che poi condannerà: «Appare significativo quanto riferito nel corso del suo esame dall’imputato FTO. Costruendo e portando avanti le barricate su via D’Invrea e via Casaregis, resistendo agli attacchi dei militari a piedi e poi dei blindati, inseguendo questi fino allo slargo di corso Torino, i manifestanti hanno inteso non solo raggiungere i compagni del corteo, ma anche e soprattutto “riconquistare” il diritto a manifestare liberamente, diritto del quale erano stati privati arbitrariamente.»
La prima verità giudiziaria su un episodio fondamentale del G8 di Genova dice, in sostanza, che una parte del corteo dei Disobbedienti reagì legittimamente contro i carabinieri per difendere la propria incolumità e il proprio diritto a manifestare; poi, pero, andò oltre e si abbandonò a violenze non più giustificate, a partire dall'incendio di un furgone blindato dell'Arma rimasto isolato nei pressi del sottopassaggio di Brignole e fino all'assalto al defender in piazza Alimonda.
Il giudice Gatti arriva a conclusioni così pesanti in base alIa ricostruzione dei fatti per come sono emersi da un processo durato due anni e mezzo e 143 udienze, con il decisivo contributo di una grande mole di immagini. II G8 è stato uno degli eventi piu filmati della storia, e il corteo dei Disobbedienti uno dei piu filmati del G8. La difesa dei 25 manifestanti, in particolare il consulente tecnico Carlo Bachschmidt, ha potuto proporre alla corte una ricostruzione secondo per secondo della carica e degli scontri successivi. Queste immagini, incrociate con quelle proposte dall'accusa, sostenuta dai pm Anna Canepa e Andrea Canciani, e dalle testimonianze in aula delle persone coinvolte, hanno permesso ai giudici del collegio presieduto da Marco Devoto di ricostruire gli eventi in modo preciso e oggettivo.
II quadro che ne esce e sconcertante. E lascia in sospeso un paio di misteri che riportano aIla zona grigia del G8, agli aspetti irrisolti che nessuno dei processi in corso sarà in grado di accertare: chi, in quei giomi, faceva e disfaceva i piani dell'ordine pubblico? E, soprattutto, con quale obiettivo: contenere gli incidenti o esasperarli?
Intomo alle due di pomeriggio di venerdì 20 luglio, il corteo dei Disobbedienti scende per via Tolemaide. L'atmosfera è tranquilla, nonostante le tensioni della vigilia e l'apparire dei segni della devastazione compiuta dal blocco nero. Gli organizzatori sono forti di un accordo con le autorità. Al di là dei proclami fragorosi buoni per i media, il corteo avrebbe dovuto arrivare a contatto con le barriere di cemento della zona rossa in piazza Verdi davanti a un nugolo di telecamere e macchine fotografiche. «Tutti ritenevano che il corteo avrebbe potuto percorrere l'intero tratto autorizzato e raggiungere piazza delle Americhe dove sarebbe stata intavolata una trattativa con i rappresentati  delle forze dell’ordine volta ad ottenere il compimento di una violazione simbolica della zona rossa», si legge nella sentenza. «Era infatti ai limiti della zona rossa che i manifestanti si aspettavano le cariche, si trattava di uno sviluppo sostanzialmente concordato; i manifestanti si sarebbero fermati a un certo punto e sarebbero stati respinti in maniera tranquilla e gestita.» Gli scudi, i caschi, la gommapiuma e le altre protezioni «servivano far sì che nessuno si facesse particolarmente male come era successo altre volte. La gestione dell’evento doveva essere molto tranquilla.» Doveva essere una «sceneggiata», come l'aveva definita il questore di Genova Francesco Colucci nell'audizione al Comitato parlamentare d'indagine, il 28 agosto 2001, frutto di un accordo tra Luca Casarini e «referenti dipartimentali» (cioè alti gradi romani) della polizia.
A rimarcare le intenzioni pacifiche degli organizzatori, il corteo è aperto da un gruppo di contatto formato da parlamentari e politici di rilievo, come Franco Giordano, Giuliano Pisapia, Graziella Mascia, Ramon Mantovani (tutti di Rifondazione comunista) e Paolo Cento, Luana Zanella, Gianfranco Bettin, Beppe Caccia (Verdi). Del resto, fanno parte dei Disobbedienti anche i Giovani comunisti di Rifondazione, un partito che nella legislatura al tempo appena conclusa era stato per un paio d'anni al govemo.
Accanto al gruppo di contatto scende per via Tolemaide anche un gruppo di poliziotti in borghese, compreso il dottor Vincenzo Ciarambino, funzionario della Digos di Venezia e oggi capo di quella di Bologna. L'uomo giusto al posto giusto, perché lo zoccolo duro dei Disobbedienti è formato dai ragazzi dei centri sociali del Nordest, che Ciarambino conosce bene e con i quali è abituato a trattare in situazioni simili.
Ecco il primo mistero. All'improvviso, Ciarambino e i suoi uomini scompaiono. Proprio pochi minuti prima dell'arrivo dei carabinieri e della conseguente inattesa e non pianificata carica. Perché? Perché vengono mandati via da circa dieci Disobbedienti romani che non vogliono poliziotti intorno, racconterà al processo il dirigente della Digos. II giudice, però, non gli crede. Nessuno dei componenti del gruppo di contatto ricorda di aver visto una scena del genere, davvero difficile da dimenticare. L'assessore veneziano Beppe Caccia testimonierà, di contro, di aver chiacchierato molto con Ciarambino, soprattutto del pericolo che dei violenti si infiltrassero nel corteo, e di averlo visto allungare il passo e scomparire senza neppure un cenno di saluto. II gruppo di uomini della Digos che si allontana con calma e senza nessuna apparente costrizione e ripreso in un filmato agli atti. II giudice bolla come «contraddittorie» le dichiarazioni del funzionario, la cui versione fornita in aula «non convince».
In una manciata di minuti sembra saltare tutto. I parlamentari «tenteranno più volte di mettersi in contatto con i rappresentanti delle forze dell’ordine, con il questore, il ministro dell’Interno, i diversi funzionari di PS che conoscevano direttamente. Nessuno di questi tentativi ebbe successo.» Prima e dopo gli scontri, Mantovani è in costante contatto con Fausto Bertinotti, il segretario di Rifondazione, che a sua volta telefona al ministro dell'Interno, Claudio Scajola, e al capo della polizia Gianni De Gennaro, «senza ricevere tuttavia risposte soddisfacenti perché quelli sostenevano che tutto era sotto controllo». I leader di Rifondazione ricavano l'impressione «che i vertici politici del governo non avessero il polso della situazione reale e che le autorità di pubblica sicurezza fossero molto reticenti».
II corteo continua a scendere lungo via Tolemaide, «completamente pacifico», si legge ancora nella sentenza. «Nessuno dei suoi componenti risulta fosse munito di armi proprie o improprie e durante la discesa verso i limiti della zona rossa non si era reso responsabile di alcun gesto di vandalismo.»
Poco più avanti, un contingente di carabinieri del Battaglione Lombardia sta percorrendo via Invrea, parallela a via Tolemaide. Ha ricevuto un ordine dalla sala operativa della questura: deve andare a Marassi dove il blocco nero sta assaltando il carcere, ma deve farlo in fretta perché da via Tolemaide sta scendendo un corteo. Arrivati all'incrocio con corso Torino, che pochi metri più in là attraversa anche Tolemaide, i carabinieri scendono e si dispongono in assetto antisommossa.
E qui la sentenza è nettissima. I carabinieri rispondono ad alcuni lanci di oggetti che provengono da persone lontane ed estranee al corteo, e fanno una prima carica accanendosi su alcuni giomalisti.
Immediatamente dopo si schierano su via Tolemaide e attaccano il corteo a freddo. Sono le 14.56. La più delicata decisione di ordine pubblico di quei giorni, quella più gravida di nefaste conseguenze, non è presa dagli alti strateghi del Viminale, né dalla centrale operativa della questura e neppure dal funzionario di polizia responsabile di quel contingente, Mario Mondelli.
È il capitano Bruno a dare l'ordine perché, sosterrà in aula, perde di vista Mondelli e non può più attendere i suoi ordini.
Proprio nel momento dell'arrivo in via Tolemaide, si registra un'altra misteriosa sparizione, quella del poliziotto genovese che fa da guida al contingente dei carabinieri e che sarebbe indispensabile per farlo arrivare in fretta a Marassi, come da ordini superiori. Nessuno lo vede più, nessuno si ricorda come si chiami, nessuno sarà mai più in grado di rintracciarlo.
AI processo, Mondelli e Bruno sosterranno di aver reagito a un violento attacco che coinvolgeva anche le Tute bianche. Rimedieranno però un rinvio degli atti al pm per falsa testimonianza, insieme al tenente Paolo Faedda e al dirigente di polizia Angelo Gaggiano, che con quattrocento uomini attendeva il corteo al margine della zona rossa.
La carica contro il corteo avviene in un punto del percorso autorizzato, 363 metri prima del limite della zona rossa. L'azione dei carabinieri è brutale sin dall'inizio, sottolinea la sentenza: lacrimogeni sparati ad altezza d'uomo, blindati lanciati a tutta velocità sui marciapiedi, pestaggi di persone inermi, inseguimenti, arresti arbitrari.
È un giomo sfortunato, quel 20 luglio. Non solo spariscono all'improvviso un paio di personaggi chiave, non solo quei carabinieri a caccia di Tute nere sbattono contro quelle bianche, mandando all'aria la prevista sceneggiata. II Battaglione Lombardia è il peggio che poteva capitare. Come mostrano le immagini agli atti del processo, molti di quei carabinieri si sono portati dietro delle spranghe, nettamente riconoscibili rispetto al manganello tonfa in dotazione: le usano con grande dedizione non solo sull'ampio scudo di plexiglas che apre il corteo, ma anche sui manifestanti disarmati che ci stanno dietro. Uno dei militari ha pensato bene di scriversi «nightmare», incubo, sul casco.
L'analisi di migliaia di ore di filmati ha dimostrato che soltanto il Lombardia, tra i tanti reparti di polizia, carabinieri e Guardia di finanza impegnati al G8, utilizzava armi fuori ordinanza. Sono probabilmente queste spranghe l'origine delle particolari ferite riportate da molti manifestanti, e che i medici non riuscivano a spiegarsi: «Erano ferite molto nette, estese, profonde, sembravano quasi delle rasoiate», si legge nella sentenza. Nessuno degli ufficiali ascoltati in aula ha affermato di aver notato stranezze del genere.
Le azioni del Battaglione Lombardia, scrive ancora il giudice Gatti, «raggiunsero estremi di violenza del tutto ingiustificata, in certi casi ben oltre il limite della gratuità. Vi è di più, chi porta con sé strumenti atti a offendere diversi dalle armi d’ordinanza lo fa perché ritiene i primi più efficaci di queste ultime. Lo fa preordinatamente per arrecare un danno maggiore e diverso rispetto a quanto consentito dalla legge. Lo fa perché vuole commettere un sopruso, una violenza ingiustificata nei confronti di chi gli si parerà davanti.»
La carica al corteo delle Tute bianche fa saltare i piani che riguardano il corteo piu delicato del G8, quello su cui sono puntati gli occhi dei media e della politica. Eppure, osserva il giudice, per quasi mezz'ora nessun responsabile dell'ordine pubblico cerca di rimediare: «Rivela il fatto – importantissimo – che anche dopo la prima carica (ore 14.56), immediatamente percepita dalla sala operativa, nessuno sia intervenuto presso il dottor Mondelli per cercare in qualche modo di bloccare o quanto meno di dirigerne l’azione. La prima comunicazione successiva alla carica tra la sala operativa e Mondelli è infatti solo delle ore 15,22 e contiene la disposizione di lasciar passare il corteo.» La conclusione del giudice apre scenari oscuri: «Questa circostanza lascia aperta ogni possibile congettura circa le modalità effettive dell’operazione». Come dire: fu vera sfortuna?